PESTILENZA

Le strombazzate riempivano la nave. Neppure in sala di controllo Robinson riusciva a sottrarsi al suono nasale di quegli sbuffi e starnuti che passavano per la loro risata. Per la centesima volta si sedette nella poltrona del capitano, indossandone le cuffie, e si sforzò di percepire una qualche risposta alla sua invocazione di soccorso.
Quando infine ripose le cuffie, il computer disse: «Vorrei che lasciassi fare a me. Se c’è qualcuno là fuori, lo sentirò molto prima di te.»
«Visto che sei tanto sveglio,» disse Robinson indicando la scala col pollice, «perché non fai qualcosa per quelli
«Sai che non è compito mio interferire. Inoltre, loro non vogliono il mio aiuto.»
«Ma certo che non vogliono il tuo aiuto!» gridò Robinson. «Sono fuori di testa! Non… oh, al diavolo tutto quanto.»
«Assumere un tono piccato non porterà giovamento.»
«Per favore, smettila. Perché ogni tanto non puoi essere un po’ meno umano?»
«Sai che è meglio non chiedere una cosa del genere.»
Robinson lo fece. Il computer era stato progettato con simulatori di reazioni biologiche che gli permettevano di adattare la propria programmazione in base alla percezione dell’ambiente emotivo della nave. L’idea era quella di renderlo loquace quando l’equipaggio si sentiva solo, severo quando il morale si affievoliva. L’odio di Robinson nei confronti del computer lo spinse a manifestare petulanza e lamentosità.
Scese sotto coperta per dar da mangiare all’equipaggio.


Non mangiavano altro che frutta e verdure crude. Quando, tra non molto, le scorte della nave si sarebbero esaurite, con ogni probabilità sarebbero morti di fame. Forse, pensò Robinson, è meglio così.
Appena aprì la paratia per accedere alla stiva di carico, l’odore lo colpì. Si ricordò troppo tardi di respirare con la bocca, e il fetore di pelo bagnato divenne tutt’uno con le sue papille gustative. «Lascia perdere, Robinson,» disse il Capitano. Robinson spinse un sacco di carote attraverso le sbarre. «È una battaglia persa. Sei l’unico rimasto.»
Il Capitano, come gli altri, era coperto da una pelliccia verde, aggrovigliata in piccoli ciuffi squadrati che sembravano squame. Questo, insieme alla lunga e spessa coda, conferiva loro un aspetto rettiliano dalla testa in giù. I volti erano di un giallo cereo, con occhi cadenti e bocche enormi a forma di imbuto. Il tentativo del Capitano di mantenere la serietà si infranse e iniziò a ridacchiare. La risata si intensificò, fino a esplodere come un lungo, echeggiante squillo di trombone.
«E se il pazzo fossi tu?» disse. «Se quelli normali fossimo noi, e tu avessi preso la malattia e ci avessi rinchiusi tutti per errore? Che ne dici, eh?» Riprese a strombazzare, contorcendosi contro le sbarre dal gran ridere.
Gli altri cinque si unirono al concerto, saltellando e dando pur loro fiato alle trombe. Le tre gabbie sbattevano contro il ponte di metallo, e Robinson si coprì le orecchie con le mani.
Questo è troppo, pensò. Gettò il resto delle verdure ai piedi delle gabbie e corse verso il portello.


Giunto in cabina, si lasciò cadere sul letto a castello e seppellì la testa sotto il cuscino. Stava perdendo il senso della realtà. All’inizio aveva provato una sensazione quasi religiosa di gratitudine per esser stato risparmiato dalla peste. Ora si chiedeva se veramente fosse stata la cosa migliore.
Il primo sintomo erano state delle risate incontrollabili. Due di loro erano scesi sul quarto pianeta della stella di Barnard, e quando erano tornati a bordo il virus era già al lavoro. Nel corso della giornata successiva avevano costretto il computer a raccontar loro tutte le barzellette, poi, ridendo, si erano sottratti alla quarantena.
Il secondo giorno avevano cominciato a spuntare capelli verdi e a tutti, tranne a Robinson, sembrava divertente. La sezione medica del computer non era d’aiuto. In poche parole, una sorta di virus stava riscrivendo il loro DNA. Era simile al virus del cancro, ma non così facile da curare. Stava ricostruendo i loro corpi dai piedi in su, o meglio, dalla testa in giù, perché era stato il cervello a essere colpito per primo.
Robinson si era rintanato nella sua cabina durante quei primi tre giorni, fissando la sua pelle fino ad avere allucinazioni sui cambiamenti di colore. Si raccontava barzellette e aspettava di vedere se sarebbe diventato isterico. Il quarto giorno decise che non si sarebbe ammalato, e cominciò a preoccuparsi della nave.
Per fortuna di Robinson, erano impotenti quando gli attacchi di risate li colpivano. In pochi minuti era riuscito a prenderli tutti e a rinchiuderli nelle gabbie per campioni di fauna, facendoli rimbalzare per i corridoi come gigantesche palle da pallacanestro verdi. Non sarebbe più sceso lì, promise a se stesso. Le gabbie erano sotto il controllo del computer, che ci pensasse lui a trovare un modo per sfamarli.
«Okay, Robinson,» disse il computer. «Sto rilevando qualcosa.»
Robinson saltò giù dal letto. «Chi è? Possono aiutarci?»
«È una nave della Federazione. Perché non sali sul ponte di comando e parli con loro di persona?»
Corse su per le scale, i rumori e le grida rimbombavano contro le pareti della nave intorno a lui. «Pronto… pronto!» gridò alla radio. «Aiuto, aiuto, mayday!»
«Datti una calmata,» disse una voce. «Abbiamo la tua posizione e dovremmo raggiungerti tra due o tre ore.»
«Non capite. C’è un’epidemia! So che sembra pazzesco, ma tutto l’equipaggio è… cambiato. Fate attenzione! Non salite a bordo!»
«Rilassati,» disse la voce. «Ne siamo già a conoscenza. Non sei il primo. È tutto sotto controllo.»
«Grazie,» disse Robinson. «Dio, sono stato così…»
«Dobbiamo chiudere adesso,» disse la voce.
«Ma non potete… Voglio dire, sono stato così…»
«Ci vediamo tra un paio di ore.»
Poi, appena prima che il contatto s’interrompesse, a Robinson sembrò di percepire come una fanfara di trombe in lontananza.


Due ore dopo, Robinson sentì i raggi traenti della nave della Federazione agganciarsi alla sua. Era in preda al terrore.
«Sai,» disse il computer, «che quella nave è piena di lucertole.»
«Oh, Dio,» disse lui. «È quel che temevo.»
«Vuoi che faccia qualcosa a riguardo?»
Il polso di Robinson accelerò. «Cosa intendi?»
«Se, oh, non so, se adesso si attivasse uno dei nostri getti di stabilizzazione, diventerebbero solo polvere cosmica.»
«Puoi… puoi farlo
«Devo proteggere la nave, giusto?»
«Allora fallo,» disse Robinson. «Fallo!»
Sentì solo una leggera accelerazione, ma sullo schermo di visualizzazione vide un bagliore solare svanire nel buio.
«Ascolta,» disse Robinson. «Dobbiamo tornare sulla Terra. Non si sa fino a che punto si sia diffusa questa cosa. Potrei essere l’ultimo essere umano rimasto qui fuori. Devono scoprire perché sono immune, trovare un modo per salvare gli altri.»
«Perché?» disse il computer.
«Cosa?»
«Ho detto, ‘Perché?’ Che importa?»
Robinson si sentì come se stesse precipitando da un grattacielo. Confusamente, si ricordò dei simulatori di reazioni biologiche. Rispondevano all’umore generale dell’equipaggio. E Robinson non faceva più parte della maggioranza.
All’improvviso l’aria fu piena di corpi verdi che correvano di qua e di là. «Imbecille!» gridò al computer. «Li hai lasciati uscire! Non puoi fare questo! Devi portarmi sulla Terra!»
«Oh, Robinson,» disse il computer. «Dov’è il tuo senso dell’umorismo?».

Lewis Shiner (1983)